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domenica 5 giugno 2011

Editorial Intern Seek Personal Drama to Cannibalize

Ieri sera sono stato invitato a un house party, il quale, oltre a essere poco più che un’ulteriore conferma del mio invecchiamento e del fatto che, interessi antropologici a parte, io e i party quel poco che avevamo da dirci non l'abbiamo più, è stata anche una piccola lezione sull’intrinsica imprevidibilità delle cose.

Il compagno di corso e padrone di casa che mi ha invitato, Tom, è un “lad” che alla sua base di essere totalmente “lad” (pub-calcio-fregna-tv-camicie quadrettate comprate da H&M-laurea in scienze della comunicazione) aggiunge qualche timido elemento d’individualità tipo un piccolo tribale sulla schiena o qualche racconto dei suoi tre mesi in Tailandia.

Le prospettive non erano delle migliori. L’unico punto a favore del party era la mia totale e completa assenza di aspettative.

E il party non mi ha smentito. La popolazione, un sacco di generici giovani urbani bianchi e neoventenni, che, oltre alle tipiche pretese e velleità e senso di self-entitlement* derivanti dall’essere generici giovani bianchi urbani neoventenni, erano pure inglesi e molto ubriachi, quindi stretti di manica, diffidenti e non particolamente ospitali. Il codice morale del BYOB è abbastanza stretto, e mi è toccato chiedere il permesso più e più volte per avere un sorso da questa bottiglia di gin o da quella bottiglia di gin, il che non è un gran problema (stridori culturali con il senso d’ospitalità mediterraneo a parte), basta fare una battuta auto-ironica sugli italiani scrocconi e l’alcol arriva.

C’è una ragazza che ha fatto l’Erasmus a Bologna e che mi vuole parlare in italiano a tutti costi, ma forse per lei l’alcol non ha il solito effetto fludificante sulle lingue straniere, e io mi impegno a disambiguare dal contesto o a cambiare argomenti o a dribblare le sue domande (almeno penso fossero domande) per evitare di farle notare che i suoni che le escono dalla bocca intorpidita non hanno alcun significato nella mia o in qualsiasi altra lingua. Ma per quanto soddisfacente, l’esercizio retorico/conversazionale/semantico dopo un po’ stanca e io con una scusa mi defilo. Se tutto è andato secondo i piani Claire si è sentita soddisfatta del suo italiano.

Le uniche quattro persone che conoscevo a parte il padrone di casa levano le tende dopo un’ora.

Alcuni tendono a presentarsi attratti dall’accento americano imbastardito, ma nessuno ha benza conversazionale di sorta. E io sono completamente sobrio e mostruosamente annoiato.

Tuttavia è bastata una canna offerta da Tom per mettere a tacere definitivamente ogni considerazione costo/opportunità dello starmene a casa o meno, considerazioni fino a quel momento voluminose, specie se consideriamo le quattro sterline e quasi tre ore totali di autobus verso e da, e la mia indifferenza al sentirmi o meno un misantropo e/o loser se non faccio niente il sabato sera.

Non fumavo dal mio ultimo ritorno in patria mesi fa, e i quattro tiri che do mi sballano prepotentemente. Un bello sballo carburato dove il pensiero deraglia. Mi lancio in una conversazione con un tale Justin, innocente studente di economia, dove cerco di persuadere il buon Justin, capitalista moderato ma convinto, che l’idea di un occidente post-ideologico è un’allucinazione collettiva e che il capitalismo è un’ideologia paro paro alle altre. Justin dopo mezz’ora si arrende e mi dice che si sente veramente soddisfatto della nostra conversazione e anche messo in discussione ma che alla fine stasera voleva solo fare due chiacchiere e una bevuta e magari ballare un po’, e scappa, lasciandomi con una modalità pezza totalmente insoddisfatta.

Istintivamente mi guardo attorno in cerca di altre vittime. Mi siedo sul davanzale di una finestra e chiedo una sigaretta a un ragazzo un po’ in carne seduto di fianco a me. Mi presento, e al mio nome lui reagisce con entusiasmo dicendomi di chiamarsi Angelo Ancora e suo padre viene da Molfetta e lui che ama l’Italia e gli dispiace di essere solo quasi-italiano. Io gli tendo la mano, ma lui non la prende, anzi non la prende nemmeno in cosiderazione. Dopo due secondi di immobile imbarazzo ritraggo mano e me stesso e me ne torno sul davanzale, interamente perplesso. Al che lui mi tende la sua. Ma non proprio verso di me, ma verso il punto dove mi trovavo qualche secondo prima. Al che il mio cervello rallentato dalla ganja inizia fare due più due. Mi guardo attorno e vedo che dall’altro lato della sedia Angelo tiene riposto un bastone telescopico. Gli stringo la mano e la conversazione riparte, e data a mia inclinazione naturale a voler andare a sbattere dritto contro qualsivoglia “elephant in the room” , suddetta conversazione finisce in breve sulla sua vicenda personale e su come ha perso la vista. Mi racconta la sua storia. Ed è una storia potente.

Angelo ha ventiquattro anni, e prima di perdere quasi completamente la vista due anni fa per una patologia irreversibile simile al glaucoma, Angelo faceva il fotografo. Anzi, la malattia gli è stata diagnosticata un mese esatto dopo aver conseguito la sua laurea in fotografia. La vista è sempre stata la sua porta principale di accesso alla realtà, nonchè il suo strumento di lavoro, nonchè quello che secondo i piani gli avrebbe dovuto dare da mangiare per il resto della vita.

Perdere la vista, come qualsiasi altra disabilità acquisita, è un'esperienza impossibile da immaginare, ma con essa perdere i propri sogni la propria passione e i propri piani per il futuro è un cazzo di colmo.

Ad ogni modo, mentre grossa parte del sottoscritto è 100% empatia, e fa domande e cerca di capire e sapere ed entrare in contatto con questa persona senza pestargli i piedi o invaderlo emotivamente, una piccola cazzo di vocina dal fondo del cranio mi sussurra maliziosamente:

best-seller material”.

E’ Babylon che parla, ovviamente. Anche con la mia poca esperienza come agente e/o editor, so benissimo che se avessi Angelo per le mani gli potrei trovare un book deal con una casa editrice grossa nel giro di poco. Non che Angelo dimostri spiccate doti di story-telling, ma la triste verità del mercato editoriale odierno, specialmente qui, è che per vendere un autore nuovo quell’autore deve avere una storia. E Angelo ha una storia enorme.

Metto Babylon a tacere a forza e continuiamo a parlare per un’ora intera. Per evitare che la cosa si trasformi in un freak-show si finisce a parlare anche di me, e gli racconto un po’ della mia incomparabilmente più noiosa storia.

Intanto mi diverto a osservare le peculiarità del conversare con un cieco. Angelo non è il primo che incontro, ma è il primo con il quale ho una conversazione così estesa e personale. Le mie espressioni facciali, che sono il mezzo principale con il quale di solito comunico al mio interlocutore la mia attenzione, qui non servono a niente, e così mi ritrovo a forzarmi e buttare spesso li un "mh mh", o "I see". Tutta la comunicazione non-verbale sparisce e deve essere sostituita con delle parole. Riscopro il potenziale del contatto fisico, per trasmettere un empatia che se esplicitata a parole sarebbe risultata ridicola o inappropriata, e così gli appoggio spesso la mano sulle spalle.

Gli dico che il mio hobby principale è scrivere e gli parlo del romanzo che sto scrivendo. Iniziamo a parlare di scrittura. Libri letti (o ascoltati) ultimamente, autori preferiti etc. Forse inconsapevolmente forse no, gradualmente sposto la conversazione dallo scrivere all’imparare a scrivere. Parliamo di blog e diari e workshops e di quanto sia importante nella creatività in generale il feedback sincero e costruttivo del prossimo, cosa che Angelo aveva imparato bene quando ancora poteva esercitare la sua arte. Parliamo di come allenare le proprie skills di espressione o analisi emotiva. Com’è come non è, dopo un’altra ora Angelo è convinto di voler scrivere un romanzo autobiografico. Buttiamo la idee, la struttura narrativa, il passaggio stilistico nelle descrizioni da prima a dopo la malattia, etc.

Gli dico che la sua capacità di immaginare visivamente forse non durerà per sempre, e che questo potrebbe essere l’unico periodo della sua vita per farlo, quando ancora la sua mente può immergersi in uno dei paesaggi che fotograva un tempo, e raccontarlo.

Gli dico di pensare al lungo termine, di non lasciarsi prendere da facili entusiasmi, perchè scrivere è una battaglia che si gioca negli anni, dove stamina e disciplina battono sempre il puro talento, anzi dove l'unico vero talento è saper posticipare la soddisfazione.

Ci scambiamo i contatti e gli prometto che se divento davvero un agente o uno scout e lui lo sto romanzo lo scrive, sarò felicissimo di venderglielo.

Prima di andarmene, gli chiedo scusa per avere, anche solo idealmente, commodificato la sua vicenda.

Mi piace pensare di essere stata una specie di levatrice socratica e non un cazzo di mercenario al soldo di Babylon. Ma non fa differenza. Se avrò avuto un impatto nella sua vita, le mie vergogne di uomo bianco e come mi faranno sentire non avranno alcun peso.

Lui tende la mano e mi ringrazia, si alza, estende il suo bastone telescopico e va a sbattere contro il tavolo. Due fighette devastate dall’altra parte della cucina ridono, e tutto il resto della stanza le guarda malissimo. Rido anch’io.


*kudos a chi mi aiuta a tradurre self-entitlement con qualcosa di meglio di “tutto gli è dovuto”, sono giorni che cerco una buona traduzione.

1 commento:

  1. Intendi un individuo convinto di dover ricevere di diritto qualsiasi cosa desideri nel momento che preferisce, senza riguardi se possa dar fastidio o meno agli altri?
    Uno che ottiene qualsiasi cosa o persona perché ne ha il dovere?
    Uno che si sente in diritto a invadere e oltrepassare i confini degli altri credendo che qualsiasi cosa riceva sia un diritto?

    Perché non lo traduci con Silvio Berlusconi?

    Che ne dici di arrogante-bastardo-a-cui-tutto-è-concesso?

    battaglia ardua sir.

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